sabato 22 settembre 2012

John Cage - Empty Words Part III Live at Milano



JOHN CAGE
EMPTY WORDS (Parte III)
Live Teatro Lirico di Milano
2 dicembre 1977
Cramps Records CRSCD 037/038
1990


Empty Words (Parole Vuote), a detta dello stesso John Cage rappresenta la continuazione del lavoro intitolato Mureau, è una composizione del 1975 per voce solista.
Il testo è diviso in quattro parti; la prima senza periodi, la seconda senza frasi, la terza senza parole, la quarta senza sillabe.
L’esecuzione in questione riguarda soltanto la terza parte; l’intera esecuzione di Empty Words dura infatti dieci ore con intervalli di mezzora tra una sezione e l’altra.
L’inspirazione deriva da una specifica dottrina buddista che esplora con la meditazione la notte con un culmine di ragione allo spuntare del sole, all’alba.
Durante l’esibizione vengono proiettate nella parete una serie di diapositive raffiguranti disegni di Thoreau; in alcune esibizioni americane della prima parte è stata aggiunta dell’elettronica alla voce, in altre la sequenza visiva delle diapositive è gestita da un sistema automatico randomico. Parti diverse sono state utilizzate anche per una serie di balletti sperimentali, l’idea originale di Cage durante la scrittura dell’Opera era infatti quella di creare un “non-sense” vocale per l’accompagnamento alla danza.
L’esecuzione della terza parte è priva di senso logico, vengono lette solo sillabe e lettere di parole senza una precisa connotazione, appartenenti a frasi con parole senza una semantica d’intenzione.
E’ contenuta pertanto all’interno delle opere musicali per voce dette “conferenze”, Cage le chiamava semplicemente “stanze poetiche” o “stanze musicali”.
Ciò che successe durante la triste serata del due dicembre 1977, durante il concerto al Lirico di Milano di John Cage, lo lascio raccontare dai diretti interessati prelevando i testi dal bellissimo volume Dopo di me il silenzio, Emme Edizioni, Milano 1978.

Roberto Calasso si espresse nell’articolo (contenuto nel suddetto libro) “John Cage o il piacere del Vuoto” :
“”Sono quasi venti anni che vedo fischiare John Cage: prima a Darmstadt, dove lo fischiavano gli adepti stessi della Neue Musik, impauriti dalla sua intrusione che rovinava tutte le loro Belle Strutture (e infatti il suo arrivo segnò la fine di Darmstadt, che da allora non fu più il luogo della nuova musica); poi in festival e concerti in varie città d’Europa. Lo fischiavano colleghi acidi e signore dignitose, intellettuali organici ed esponenti dell’avanguardia moderna, burocrati cerei e difensori dei Valori. I pochi che lo applaudivano erano invece, per una grossa quota, quelli che fanno qualcosa perché pensano che si debba farla; per una più magra quota, quei musicisti e quegli ascoltatori che erano grati a Cage per il lieve soffio esilarante e dissolutore che aveva saputo far circolare fra i suoni. Non lo applaudivano dunque soltanto (o in primo luogo) come compositore.
Cage, infatti è innanzi tutto un inventore (come seppe vedere il suo maestro Arnold Schoenberg). E la sua invenzione specifica è stata quella di introdurre discretamente, infantilmente, un po’ di Vuoto nella musica, e perciò nella nostra vita. Ora, quel Vuoto ha per noi tutti una funzione salutare, come una zaffata d’aria per un asfittico. Perché una delle malattie più gravi di cui soffriamo è quella del Pieno: la malattia di chi vive in un continuo mentale occupato da un vortice di parole smozzicate, di immagini stolidamente ricorrenti, di inutili e infondate certezze, di timori formulati in sentenze prima che in emozioni. Tutto questo produce molti disastri – ma soprattutto uno, da cui discendono gli altri: la mancanza, l’incapacità di attenzione.
Cage, in fondo, non ha detto nulla di tanto sconvolgente quanto le seguenti ovvietà: che la musica è il mondo del suono, perciò qualcosa che non comincia nella sala da concerto ma ci accompagna in ogni attimo della vita. In una camera acusticamente isolata non ascoltiamo il silenzio (che è, se mai, una categoria metafisica) ma il quasi impercettibile suono della circolazione del nostro sangue. Cage ha invitato i suoi ascoltatori a rivolgere il loro orecchio a questa realtà. Ma per farlo, non bisogna tanto esercitare l’orecchio quanto la mente a costruire al suo interno un po’ di Vuoto dove accogliere i suoni. Questa pacata proposta può facilmente provocare reazioni violente, perché al proprio Pieno molti sono pateticamente incollati (altrimenti – temono con ragione – non saprebbero a cosa appigliarsi). Perciò, credo, Cage è tanto spesso fischiato.
Ma la dimostrazione perfetta, paradossale, e forse insuperabile, di questo meccanismo l’ho vista solo ora, al concerto di Cage al Lirico di Milano. Un pubblico di forse duemila persone, per lo più fra i quindici e i trent’anni (gli intellettuali più maturi non erano presenti, evidentemente consideravano la serata non degna della loro attenzione), si era accalcato per sentire questo nome leggendariamente “critico” e “alternativo”. Ma di lui non dovevano sapere, o aver capito, molto più del nome. Infatti, dopo pochi minuti, la serata si è trasformata in un psicodramma galoppante, che aveva come suo oggetto taciuto la voglia di pestare di botte l’illustre musicista.
Cage, solo sulla scena, attento e concentrato in un’incongrua lettura di sillabe, è riuscito a provocare un black-out per due ore e mezzo su duemila ascoltatori, li ha fatti rivelare se stessi come nessuno psicoanalista, come nessun pedagogo politico saprebbe mai. Se volevano tanto esprimersi, bisogna dire – ahimé – che si sono espressi. E che cosa hanno espresso questi giovani di tutte le Militanze, di tutte le Devianze, di tutte le Emarginazioni, di tutte le Differenze? Innanzi tutto hanno rivelato di odiare ciò che è realmente strano. Perché Cage è appunto una delle rare persone realmente strane che si possano incontrare. Già per il suo aspetto, per il suo gesto, per lo stile, per esempio della sua invincibile risata, che ha un rumore di foglie secche. Poi hanno rivelato, avendo per due ore e mezzo la totale disponibilità di un teatro, che cosa è il loro teatro mentale: con invenzioni davvero trite, ben lontane da quell’Ironia che pur dovrebbero aver riscoperto.
Infine, usando tutto quello che si trovava intorno come percussione, hanno creato momenti di vera fusione tribale: ma era come un dilatarsi dello spirito, dell’uniamo i tavoli nelle pensioni di montagna nei giorni piovosi. Con l’aggiunta di una violenza esplicita che si sprigionava momento dopo momento, nutrita da una cordiale solidarietà nella voglia di picchiare chi comunque non avrebbe potuto difendersi. Sicché molti sembravano invocare non certo la solita chimerica Liberazione, ma una più umiliante, e perciò più equa, Oppressione.
A un certo punto un gruppo di una decina di ragazzi si è addensato intorno a Cage. Uno a tentato di bendarlo con una fascia nera – e temo non sapesse che in quel momento ripeteva il gesto antichissimo con cui il musico viene eletto a pharmakon, vittima fascinosa e miasmatica, che deve essere espulsa dalla città, come ha raccontato Platone nella Repubblica. Era il gesto simbolico del pestaggio. Non lo hanno pestato perché Cage – anche a pochi centimetri – nella sua inflessibile quiete ha continuato ad agire come l’Angelo Sterminatore. Ma i gesti simbolici, si sa, significano sempre un po’ più dei fatti. Alla fine del pezzo, Cage si è alzato dalla sua sedia, si è inchinato al pubblico e ha abbracciato sorridendo – col suo mirabile sorriso vuoto – i due ragazzi che si trovavano più vicini. Poi è uscito fra lo scrosciare degli applausi dei molti che lo avevano ingiuriato e dei pochi che gli erano grati per aver provocato questo piccolo e atroce gioco della verità.
L’inerme aveva disarmato le turbe focose. E credo che in quel momento si sia guadagnato l’ammirazione di qualcuno che fino a poco prima lo aveva guardato, scioccamente, come un nemico. Forse solo allora ci si è accorti che tutto si era svolto come nell’Angelo Sterminatore di Bunuel: le porte erano aperte, ma fino all’ultimo nessuno era riuscito ad andare via (e sarebbe stata una reazione ragionevole davanti ad uno spettacolo di tale esasperante monotonia). Centinaia e centinaia di persone avevano guardato, ipnotizzate, quell’uomo solo seduto al suo tavolino, gli insulti lo avevano attraversato come un foglio trasparente, si erano ripercossi indietro e avevano illustrato a tutti quello che profondamente desideravano: cose tristi, per lo più.
Comunque quegli spettatori non volevano l’esile soffio di Vuoto che accompagna Cage; troppo piena di macerie verbali era la loro mente perché potessero riconoscere che si trovavano di fronte a qualcosa che forse non avevano mai incontrato: una persona del tutto priva di ostilità verso di loro, perché prima di rancore in genere.””

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A proposito della vicenda al Lirico, durante una conversazione con Luciano Martinengo, Provenza, prima settimana d’agosto del ’78, lo stesso John Cage, da un estratto sempre contenuto nel libro di cui sopra:
“”…a proposito del mio rapporto con i giovani, della presentazione di Empty Words (Parole Vuote) al Teatro Lirico di Milano, l’anno scorso … Mi era già successo una volta in Colorado, qualche tempo fa. Ma allora c’era un picchetto di persone attorno a me per proteggermi. A Milano ho avuto l’impressione di aver rischiato la vita. Quando veramente il pubblico degenerò e un gruppo di ragazzi invase il palcoscenico spegnendo la lampadina alla cui luce stavo leggendo e togliendomi gli occhiali, pensai che qualcuno avrebbe anche potuto uccidermi: in ogni caso avevo deciso di lasciar fare e di non reagire.
All’inizio furono gettati dei mortaretti: è ovvio che la gente non va normalmente a teatro con dei mortaretti in tasca. Era dunque una cosa programmata. Ma allo stesso tempo avvertii una certa… come dire… dolcezza italiana, una umanità insomma… insieme alla violenza.
D’altra parte, molte persone, non soltanto della mia età ma anche giovani, mi dissero che il concerto era stato un successo. Io non so, francamente non so cosa pensare neppure ora. Il mio amico Gianni Sassi, della Cramps Records, la casa discografica che ha inciso i miei pezzi, mi ha detto che è molto più sana la reazione di questo pubblico giovanile pieno di energie che non il comportamento educato del pubblico normale che ascolta tutto senza reagire e che in effetti non sente niente. A questo, però, devo aggiungere che anche il pubblico giovanile non sente niente: infatti, fa troppo rumore…””
“”…Se questo diventa il modo corrente di ascoltare la musica, un modo che consiste nel non ascoltare affatto, ma piuttosto nel produrre una reazione di energia pura non ho risolto il dilemma nella mia mente…””
“”…Le interruzioni devono poter diventare accettabili o addirittura naturali. Al Teatro Lirico di Milano, ad esempio, è proprio per questo che sono riuscito a farcela. E’ per questo che ho potuto continuare. E questo, in un certo senso, ha risolto il problema di coloro che si collocavano in contrapposizione, perché il fatto che io continuassi li impressionò favorevolmente: alla fine del concerto feci un gesto come di apprezzamento verso il pubblico, mi inchinai ed essi applaudirono…””
“”…In poche parole, io non avevo l’intenzione di provocare il pubblico e nemmeno cercavo di mantenere il contatto con esso… non ho fatto alcuno sforzo… per esempio, non mi sono neppure preoccupato di alzare la voce per essere udito al di sopra del baccano…””
“”…Qualcuno cercò di distruggere le diapositive di Thoreau che sono molto belle, ecco questo non lo capisco proprio… poi distrussero degli oggetti di arredamento… Qualcosa di simile, su scala minore, è avvenuto a Genova il mese scorso e anche questa volta mi è stato riferito che il concerto è stato un successo…””
“”…in Colorado, al Naropa Institute, tra buddisti… (risatina). C’erano dei giovani interessati, almeno in teoria, alle discipline buddiste. Io pensavo che il mio lavoro sarebbe stato molto efficace in quel contesto. Invece la loro reazione fu addirittura selvaggia… e naturalmente (risatina) il direttore dell’Istituto, Chump… non ricordo il resto del nome, mi invitò a diventare membro permanente del corpo insegnante; lui era assolutamente soddisfatto (risata). Disse che avevo la capacità di far venire fuori i diavoli, che è poi in parte ciò che loro vogliono fare laggiù… per poterli poi, come dire, esorcizzare… Può anche darsi che abbiano visto giusto (risatina) ma io escludo per me una prospettiva di educazione di massa…””   






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