TONTO’S
EXPANDING HEAD BAND
ZERO
TIME
Atlantic Records K040251
1971
L'ideale maglia di congiungimento tra la psichedelia spirituale dei '60 e
la musica elettronica dei '70
è sicuramente l'album dei "Tonto's Expanding Head Band", "Zero
Time" che venne pubblicato nel 1971 dalla "Atlantic Records" e
rappresenta uno dei progetti più innovativi del periodo.
La band, in realtà un duo di sintetisti,
era la risposta americana alla musica elettronica europea, si poneva sopratutto
come valida alternativa al marasma di prodotti tedeschi sul generis; a
differenza dei "Tangerine Dream" le loro esplorazioni cosmiche sono
meno statiche, più fresche e colorate. Il duo era composto da Robert Margouleff
e Malcolm Cecil, singolari personaggi provenienti dalla New York tecnologica,
il loro strumento preferito un colossale assemblato della
Moog costituito da un modulare serie III sommato a centinaia di
controller e sistemi secondari. Quello che più affascina però non è la suntuosa
attrezzatura, per altro di proprietà del Mediasound studio di New York, ma la
forza visionaria degli stessi musicisti, impiegati entrambi
nell'improvvisare linee melodiche ad effetto e figure fantasiose in
una esecuzione ripresa per lo più in diretta.
"Zero Time" anticipa
gran parte delle soluzioni elettroniche dei tempi a venire, ad
esempio nel cadenzato pop sintetico di "Timewhys"
che precede di quattro anni i bozzetti dei "Cluster" di
"Zuckerzeit", e ancora "Aurora",
facilmente scambiabile per un'opera ambientale di Brian Eno, che dire poi di
"Cybernaut", una
versione elegante di certa musica cosmica europea. Margouleff e Cecil accettarono un giusto
compromesso e cioè gestire con gusto i sintetizzatori senza strafare con sofismi
inutili, divenendo in questo modo i capostipiti di una folta schiera di
strumentisti elettronici che dalla macchina non cavarono solamente
rumore ma anche musica e idee originali. L'alea più colta i
due la raggiunsero con il lungo raga intitolato "Riversong", si tratta di una
poesia con musica indiana sempre generata dal sinth, anche la voce dovette
oltrepassare l'interno dei circuiti elettronici si che par sia il Moog a
cantare e non l'uomo.
Meno librante e più tenero l'ultimo
pezzo, "Tama", che
ricalca alcune soundtrack del periodo con un soffio di brezza e uno sciabordare
d'onde, effetti che sarebbero divenuti d'uso comune nel pop elettronico, da
Jean-Michel Jarre ai musicisti new age degli anni '80.
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