BEAVER & KRAUSE
MONOGRAFIA
Paul Beaver e Bernard L. Krause sono
due musicistici e compositori che si conobbero nel 1967 durante un seminario di
musica elettronica a Los Angeles in California.
Poco dopo iniziarono a
portare dal vivo un nuovo tipo di musica pop; presso diversi club californiani,
dove si ascoltava prettamente rock psichedelico, i due miscelavano dal vivo
brani classici del repertorio rock/blues americano con il suono elettronico
prodotto da archetipi apparati elettronici. Qualche cosa di analogo stava
avvenendo a New York, Joseph Byrd
stava lavorando in quella stessa direzione e la cosa lo avrebbe portato ben
presto al progetto “United States Of
America”.
Grazie alla personale
amicizia con Robert Moog, che stava
giusto all’epoca sponsorizzando il suo primo synth modulare da studio, Paul e
Bernard ottennero l’incarico dall’importante casa discografica Nonesuch Records di Broadway (NY) per
la realizzazione di un doppio LP per uso didattico. The Nonesuch Guide To Electronic Music doveva essere un prezioso
supporto sonoro e cartaceo, grazie al ricco book interno, per tutti coloro
volessero avvicinarsi al mezzo elettronico, più propriamente al sintetizzatore,
fosse questo un Moog, ma non solo.
Per l’occasione i due
crearono anche un brano musicale interamente eseguito al sintetizzatore dotato
di tastiera, “Peace Three” (fu il
primo pezzo da spartito eseguito interamente al Moog Serie III, poco dopo
seguirono le ben più impressionanti suite classicheggianti di Walter Carlos); per il resto il cofanetto
in questione, pubblicato appunto dalla Nonesuch
nel 1968, contiene esempi sonori e relative spiegazioni su carta, delle
possibilità offerte del nuovo mezzo elettronico.
E’ un’infinita serie di
suoni armonici e non armonici, forme d’onda di varia natura, rumore bianco e
rosa, gong, effetti di tutti i generi, il tutto manipolato attraverso filtri,
modulatori, amplificatori, attraverso vari sistemi di controllo automatico e
manuale come le tastiere, i “ribbon control”, i “tape delay”, etc etc.
L’anno successivo la Limelight Records, un’etichetta
interessata alla contaminazione tra rock ed elettronica, la stessa che aveva
già pubblicato l’album sperimentale dei Fifty
Foot Hose “Cauldron”, pubblicò il
primo LP propriamente musicale del duo statunitense. Ragnarok Electronic Funk venne dato alle stampe nel 1969; in questo
i due alternano brani interamente elettronici con canzoni leggere eseguite con
strumenti classici, esperimenti vicini a Stockhausen
con marcette da sagra paesana, “improvvisazioni cageane” con nenie sudiste,
foxtrot futurista con assoli spaziali di musica elettronica, rumore fine a se
stesso al limite della “industrial” con divagazioni a volte melodiche, a volte totalmente
scoordinate. Il disco è paragonabile in tutto e per tutto ai due lavori di Joseph Byrd del periodo (U.S.A. e American Metaphisical Circus) anche se Beaver & Krause confezionarono oggettivamente un prodotto ben
più interessante, purtroppo per loro per una più piccola etichetta
discografica.
Si fecero comunque notare
dalla Warner Bros Records Inc. che li
scritturò per la realizzazione di una serie di album di pop-elettronico, ma non
solo; anche George (Beatles) Harrison volle farsi aiutare da Bernard
Krause per la registrazione del suo album elettronico del ’69 (Electronic Sound).
Il primo dei tre lavori
usciti per la Warner fu In A Wild Sanctuary (1970), un lavoro
per elettronica ed esemble “convenzionale” di organo e piano elettrico, chitarre,
flauto e percussioni esotiche.
Il titolo ispirato da
certa vecchia letteratura naturalista americana richiama i contenuti; trattasi
perlopiù di world music ad effetto con parecchi strascichi classicheggianti
rubacchiati qua e la da J.S.Bach; c’è
del blues vero e proprio annaffiato con una serie di suoni concreti naturali
registrati da Krause in visita ad uno dei più grandi parchi naturali della Baia
di San Francisco. Se si ascoltasse solamente il primo brano si potrebbe a
tratti dirsi un album di rock progressivo; il resto è un continuo cambio di
umori, tra dedali astrali, leggiadri blip e plip su tappeti minimali, richiami
a certi temi classici provenienti dai compositori americani del diciottesimo
secolo ed inni solenni alle aquile e a tutti gli animali selvatici che popolano
le vaste lande di un’America per buona parte ancora conservata allo stato
brado.
Gandharva
(1971), il secondo LP uscito per la Warner
è sicuramente il lavoro più magniloquente e intellettuale, anche se il suono
del duo perde molto del fascino dei precedenti progetti meno organizzati ma più
freschi e genuini. Questa volta l’ensemble d’accompagnamento è composto da una
nutrita schiera di cantanti gospel e strumentisti jazz, rock e classici che
eseguono le partiture di Beaver &
Krause impegnati questi a gestire effetti ed elettronica miscelata al
tutto. Interessanti le parti canore femminili registrate in una miniera 150 piedi sotto il
livello del mare con un effetto di decay naturale di sette secondi, oppure
l’organo a canne della “Grace Cathedral” di San Francisco ripreso attraverso
speciali microfoni, per un effetto quadrifonico, dall’alto dell’abside. La
seconda parte del disco, oltre agli interventi del già citato organo a canne,
si ramifica attraverso un labirinto di “free-jazz”, poco “free” nel senso
stretto del termine e molto cosmico per l’abbinamento costante con gli effetti
elettronici.
Chiude il contratto con
la Warner l’ultimo album del duo in
simbiosi, All Good Men (1972), disco
splendido, preciso, divertente, colto e disinibito, poco valutato e scarsamente
recensito; un maturo progetto gestito assieme alla cantante Andrienne Anderson e al produttore Jimmie Haskell inspirato a due facce
della stessa medaglia: la vita guardata con gli occhi dei nativi americani, gli
indiani, e la stessa dipinta come storia gloriosa che va dai vecchi
conquistatori ai “moderni” padri della patria. L’elettronica di Beaver & Krause diventa ragtime con
la bellissima cover “A Real Slow Drag”
di Scott Joplin, rock progressivo, musica
classica rielaborata al Moog synthesizer, canzone leggera, world music, new age
music, reggae, blues, jazz, in un susseguirsi infinito di stili musicali che
culminano con una metafisica versione finale dell’iniziale ragtime.
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